Alessandro Mantini, GRI certified professional, senior Manager del Reporting Finanziario
e di Sostenibilità del Gruppo Mediaset
L’emergenza Coronavirus ricorda
all’umanità la sua vulnerabilità, sia a livello personale sia a livello di
comunità sociale ed economica. Viviamo una crisi, prevista tra gli altri da Bill Gates nel 2015, che mette in discussione il nostro
concetto di benessere: cosa ne pensi?
Quelli che progettano il futuro sono
quelli che nella loro testa lo hanno già visto. Marzo 2015: Bill Gates teneva
questo speech durante una TED
Conference di cinque anni fa. Cinque anni fa avremmo potuto vederlo tutti.
Avremmo potuto ascoltarlo. E forse, avremmo potuto contrastare efficacemente
questa epidemia prendendo per tempo le giuste misure (che tra l’altro lui
stesso consigliava). Cinque anni fa Bill Gates era già nel 2020 e noi eravamo
ancora nel presente a pensare alle nostre contingenze quotidiane.
Questo video, a fronte di quanto sta
accadendo in questi giorni, dovrebbe convincerci ad accogliere gli appelli dei global influencer sulle epidemie,
sull’ambiente e più in generale sulla sostenibilità delle attività
antropiche finora rimasti inascoltati.
A guardare i dati, questa epidemia in Europa non solo ha rimesso in
discussione il tema della longevità, ma sta modificando in maniera sensibile la
composizione della popolazione in termini di età con conseguenze nel lungo termine
non trascurabili. Il possibile impatto su misure come l’indice di vecchiaia o
l’indice di dipendenza strutturale (derivante dal fatto che la malattia
colpisce statisticamente gli anziani con conseguenze più gravi) richiederà di
riconsiderare temi legati alla sostenibilità
dei nostri sistemi assistenziali, sanitari e pensionistici ed alla distribuzione della ricchezza e dei consumi
che orientano le scelte di produzione.
Anche il cambiamento del proprio stile di vita che inevitabilmente ci viene
imposto rivede totalmente il concetto di
benessere (o, se preferite, di felicità) e di allocazione dello stesso tra le
varie categorie sociali. Il COVID-19 è una malattia che non solo colpisce
indistintamente ricchi e poveri ma che impatta diversamente il centro e le
periferie e mina l’equilibrio psico-fisico delle famiglie, specie di quelle con
disabili e figli a carico. Se dunque il modello di benessere che
tradizionalmente conoscevamo favoriva i ceti benestanti che abitavano nelle
metropoli (in termini di accesso alle risorse economiche e possibilità di
consumo) quello di oggi vede con favore anche la condizione di chi, pur in
presenza di opzioni di consumo più ridotte, può permettersi spazi abitativi più
ampi e possibilità di accesso ad aree verdi di proprietà. Anche la presenza
dell’infrastruttura di rete, che già costituiva un fattore differenziale in
precedenza, contribuisce ad amplificare questo fenomeno. La Rete avvicina le
periferie e diventa fattore di inclusione specie in un momento come questo in
cui le relazioni sociali non possono svolgersi al di fuori del proprio
domicilio.
Quali sono le priorità su cui bisogna
concentrarsi quando l’emergenza lascerà il posto alla ripresa di una “nuova
normalità” e saremo chiamati a ricostruire il nostro tessuto economico e
sociale?
Recenti studi in materia affermano che la gestione del COVID-19 in
assenza di un vaccino (previsto non prima di 18 mesi) potrebbe richiedere
l’adozione intermittente di periodi di allontanamento sociale meno severi ma
molto simili a quello che stiamo vivendo in base all’evoluzione dell’epidemia
ed all’emergere di nuovi focolai in diverse zone del mondo. Questo significa
dover essere pronti a vivere il prossimo anno e mezzo in uno scenario economico che procederà “a
singhiozzo”, con continue battute di arresto e di ripresa e ritmi di
produzione e consumo differenziati in base alle aree geografiche.
Una situazione dunque che, stranamente, potrebbe premiare al di là dei settori
merceologici le aziende che operano a livello globale con un portafoglio
clienti molto diversificato e le imprese flessibili che possono facilmente
delocalizzare la propria produzione, non solo spostandola da un Paese all’altro
ma permettendo anche al fattore umano di operare al di fuori della fabbrica.
Il post COVID-19 sarà in tutto e per
tutto simile ad un contesto post-bellico. Così come ahimè le cronache nazionali
ci restituiscono oggi un bollettino quotidiano di decessi intollerabile, fra
qualche mese dovremo fare i conti con la chiusura di molte imprese che non sono
state capaci di reggere uno stop del fatturato così prolungato a fronte del
sostenimento di costi fissi non sufficientemente compensati da provvedimenti
pubblici che mai come oggi dovranno essere per questo motivo mirati e
tempestivi.
L’esigenza per tutti sarà quella di verificare in tempi brevissimi la
sostenibilità nel medio periodo della propria offerta a fronte di un mercato di
consumo radicalmente cambiato per poter attrarre capitali che rapidamente
si stanno spostando da un settore all’altro. Nella maggior parte dei casi le
conclusioni cui molte imprese perverranno saranno legate alla riconversione
delle proprie linee produttive e allo sviluppo di nuovi modelli di business.
Processi che, come sappiamo, in un contesto normale richiedono tempo. Ma di
questi tempi la parola “normale” sta assumendo nuovi significati.
Di certo (e qui mi si consenta di
cogliere una nota di ottimismo) l’emergenza COVID-19 ha di fatto premiato la transizione al digitale che
molte imprese stavano già effettuando e confermato l’importanza di un impianto di risk
management solido capace di interfacciarsi con i temi ESG (Environmental Social & Governance)
ed i relativi rischi a livello globale per individuare ed implementare
efficacemente risposte coerenti. In questo senso ad esempio, l’adozione in
larga scala dello smart working nei
contesti in cui questo era applicabile ha permesso a molte imprese di garantire
la continuità del servizio salvaguardato al contempo la salute dei propri
dipendenti e più in generale del Paese. In una parola: ha permesso di generare
valore.
A ciò si aggiunta la peculiarità del nostro tessuto imprenditoriale fatto di piccole
e medie imprese che nel corso degli anni ha dato prova di grande resilienza e
capacità di adattamento.
Quali opportunità stai cogliendo da
questa crisi, quali elementi positivi credi di poter trarre e come pensi di
valorizzare l’esperienza, sul piano professionale? Quali innovazioni derivanti
dai cambiamenti in corso, in particolare nella sfera lavorativa e produttiva,
credi possano rivelarsi un valore aggiunto?
Sono sempre stato uno strenuo sostenitore
delle tecnologie digitali ed ho sempre valutato con grande positività i
cambiamenti che queste hanno introdotto nel nostro modo di vivere, socializzare
e lavorare. D’altro canto in questi anni ho dovuto fare i conti anche con le
resistenze di chi, per vari motivi, non accettava questi cambiamenti e reputava
iniquo lo scambio tra vecchie e nuove abitudini. “O tempora! O mores!" esclamavano costoro, adducendo il fatto
che quando questa tecnologia non c’era si viveva bene lo stesso.
Questa crisi
ha di fatto sancito uno spartiacque al di là del quale una certa porzione della
popolazione rischia di essere relegata ai margini della nostra società. L’analfabetismo
digitale, finora tollerato, diviene a partire da adesso un fattore
disabilitante cui bisognerà in breve tempo porre rimedio.
Questa questione acquista a mio avviso
particolare importanza mondo del lavoro. Le esigenze irrimandabili di un lavoro agile e collaborativo
squalificano i burocrati che tenevano il pezzo di carta nel proprio cassetto,
premiando invece le imprese che negli anni sono riuscite ad introdurre buone
pratiche di lavoro come lo smart office, la gestione paperless, le piattaforme di gestione documentale collaborative o l’utilizzo delle chat e
delle video-conferenze.
Nello specifico della mia professione, l’office of finance dei gruppi quotati è già da tempo oggetto di una
rivoluzione digitale che verte su diversi fronti, tra i quali:
- L’adozione
di sistemi informativi unificati per
il reporting finanziario e di sostenibilità, le attività di business intelligence e di gestione dei
rischi; - Il primato
delle tecnologie in cloud rispetto a quelle on
premises per flessibilità, aggiornamento e facilità di implementazione; - Il coinvolgimento di tutti gli stakeholder dei processi all’interno
delle piattaforme e la necessaria sensibilizzazione degli attori coinvolti
all’utilizzo degli strumenti informatici a supporto; - L’utilizzo dell’A.I. (Artificial Intelligence) a supporto dei processi di
pianificazione multiscenario e di risk
assessment. - Il supporto delle tecnologie blockchain nella gestione delle
informazioni al di fuori del perimetro aziendale, con evidenti impatti sulla privacy e sulla security.
Mi trovo dunque in una condizione
doppiamente vantaggiosa, non solo perché la mia conoscenza e padronanza delle
nuove tecnologie aggiungerà degli skill
al mio curriculum professionale, ma anche perché ho l’opportunità di lavorare
in un’azienda che per la sua dimensione, la sua cultura e il settore in cui
opera ha saputo cogliere con il necessario anticipo la transizione, favorendomi
la possibilità di dare un contributo fattivo in questa direzione.
Si tratta chiaramente di una rivoluzione di cui beneficeranno a
piene mani le aziende di servizio e le aree staff. Altrove (specie nelle
aree di produzione) assisteremo ad un effetto
di sostituzione delle macchine sugli uomini, cui dovrà far seguito una riqualificazione delle figure professionali
non solo in termini di modalità lavorative ma anche di mansioni.