<it>Dall’emergenza alle priorità: Odile Robotti</it>

Dall'emergenza alle priorità: Odile Robotti

La prima testimonianza è uno scritto di Odile Robotti, esperta di formazione, inclusione, leadership femminili e intergenerazionalità, fondatrice di Learning Edge.

L’emergenza Covid-19 è arrivata prima gradualmente e poi improvvisamente. Il risultato è che non abbiamo avuto tempo di prepararci né da un punto di vista organizzativo (allo smart-work, al trasformare in online quello che era in presenza, ecc.) né psicologico (alla reclusione, alla convivenza 24H forzata, ecc.).
Ci siamo ritrovati chiusi in casa (con il ripostiglio pieno di carta igienica e scatolette di tonno) a contare, come carcerati, i giorni che ci separano da un orizzonte mobile: 25 marzo, 3 aprile, poi 15 aprile, consapevoli che il virus coronato e crudele potrebbe allungarci la pena.

Da qualche anno a questa parte mi occupo di una competenza emergente del XXI secolo che ho chiamato restartability: è la capacità di ricominciare in modo radicale e positivo nel lavoro e nella vita. Non avrei mai pensato che l’argomento sarebbe diventato attuale a causa di una pandemia: pur avendo raccolto e analizzato moltissimi casi di nuovi inizi e studiato l’argomento (su cui ho scritto un libro, Il Magico Potere di Ricominciare, Mind Edizioni, 2019), non mi è mai passato per la testa che un virus potesse costringerci tutti a ricominciare contemporaneamente. Però, questo almeno sì, pur non avendola prevista, ho riconosciuto immediatamente la situazione.

Siamo in un caso di nuovo inizio collettivo. Il Covid-19 rimarrà nella memoria collettiva come uno spartiacque rispetto al quale c’è un prima e un dopo. È meglio o peggio quando si ricomincia tutti insieme? Da un certo punto di vista è psicologicamente più faticoso perché non dobbiamo cambiare solo noi (che già non è facile), ma ci cambia tutta la realtà intorno. L’insicurezza è quindi massima ed è stato dimostrato che l’essere umano è più stressato dall’incertezza che della certezza di un evento negativo. D’altra parte, dato che molti si trovano ad affrontare situazioni simili contemporaneamente, si crea un senso di comunanza e solidarietà, oltre al fatto che si possono condividere strategie e buone prassi. Ci stiamo incoraggiando a vicenda, come dimostrano i canti dai balconi e i tricolori.
Avendo un po’ di esperienza nell’aiutare chi affronta nuovi inizi, vorrei condividere 3 riflessioni che ho fatto:

1.    Si vince cooperando. In situazioni estreme, come quella che viviamo, le reazioni istintive si distribuiscono tra due polarità: da un lato cooperazione e fiducia verso il prossimo, dall’altro chiusura e individualismo. Il primo consiglio che darei è di gravitare verso la prima. Non solo perché la pandemia la si vince tutti insieme, ma anche perché sentirsi parte di una comunità solidale è un potente antivirale. Paradossalmente, stiamo scoprendo il valore della vicinanza umana proprio quando dobbiamo tenerci a distanza gli uni dagli altri. Non lasciamoci scappare questa opportunità: cooperazione e comprensione delle nostre interconnessioni sono le armi che abbiamo per combattere tutte le grandi sfide del nostro secolo, dal cambiamento climatico alla gestione dei flussi migratori.

2.    Conviene fare amicizia con la paura. Immaginare il “worst-case”, cioè conoscere le proprie paure, anche se è contro-intuitivo, aiuta a ridimensionarle. Anzitutto perché, come spiegavo, quello che ci stressa di più è l’incertezza. Secondo, perché analizzando il “worst-case” (attività non attrattiva, capisco) spesso vengono in mente soluzioni e contro-misure per contenerne gli effetti negativi che risultano utili e, almeno parzialmente, tranquillizzanti. A volte, addirittura, ci rendiamo conto di quanto sia remota la probabilità che si verifichino gli eventi che conducono allo scenario peggiore e ci rassereniamo un po’ (ricorderete cosa disse a questo proposito Martin Luther King: “Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio si alzò e andò ad aprire e vide che non c’era nessuno”).

3.    Si può sempre fare qualcosa. Tappati in casa, disarcionati dalla perdita delle consuetudini e preoccupati per il futuro, rischiamo di accantonare i nostri sogni. Sarebbe un errore: il sogno è terapeutico e, anche in mezzo alle costrizioni, c’è sempre qualcosa che si può fare per avvicinarcisi. Prendete esempio da Laura Wilkinson, tuffatrice statunitense che si fratturò un piede pochi mesi prima delle Olimpiadi del 2000 nelle quali doveva gareggiare. Dovette interrompere gli allenamenti, ma non rinunciò al sogno olimpico: decise di allenarsi mentalmente.  Per migliaia di volte immaginò in ogni dettaglio il tuffo che avrebbe dovuto fare dalla piattaforma di 10 metri. Il giorno della prova olimpica raggiunse la scaletta della piattaforma quasi zoppicando. Vinse l’oro con un tuffo perfetto.
Ci aiuterà a superare questa crisi quello che abbiamo nella testa, non solo il nostro sistema immunitario.

Lo scenario in cui ci siamo trovati catapultati da un mese (che sembra un secolo) inizialmente ci ha fatto toccare i nostri limiti. La situazione avrebbe richiesto di restare lucidi (ma l’amigdala spadroneggiava) e di fare un pivot su noi stessi per ripartire velocemente online (ma siamo rimasti qualche giorno immobilizzati come cerbiatti abbagliati dai fari).

A parte medici e infermieri, che hanno dato un esempio straordinario, all’inizio abbiamo un po’ sbandato e siamo andati in ordine sparso (chi affollando incurante i locali, chi esaurendo con acquisti eccessivi le scorte di mascherine delle farmacie). Poi però i primi sono usciti dalla trance e hanno iniziato a svegliare gli altri. Si è manifestata in un numero crescente di persone la volontà precisa di ricominciare e di trascinare gli altri, di tranquillizzare e di indirizzare gli sforzi. Sempre più numerosi ci siamo rimboccati le maniche. E intanto fioriva la creatività e si manifestavano la capacità di inventare soluzioni dal nulla e la gioia di aiutare il prossimo e la comunità che la sicurezza, l’avere tutto a disposizione e la fretta avevano un po’ assopito.
Abbiamo ritrovato la nostra antica arte di arrangiarci.

L’emergenza Covid-19 è un corso accelerato e difficilissimo al quale ci siamo trovati iscritti, con decorrenza immediata e frequenza obbligatoria, senza averne fatto domanda. Non è piacevole, ma forse era proprio il corso di cui avevamo bisogno.

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